Sviluppo come crescita economica
Questa definizione, ancora molto utilizzata anche se ampiamente messa in discussione, è convenzionalmente fatta risalire al 20 gennaio 1949, quando il presidente americano Truman, nel suo discorso inaugurale, divise il mondo in paesi “sviluppati” e “sottosviluppati”[1], a seconda della loro maggiore o minore crescita economica, ed impegnò i primi a favorire lo sviluppo industriale e tecnologico dei secondi.
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Lo Sviluppo, in questa accezione, è misurato dal PIL (Prodotto Interno Lordo[2]). Tale approccio è caratterizzato da un’estrema fiducia nel progresso economico: il PIL, crescendo, trascinerebbe con sé tutti gli altri indicatori del benessere sociale - istruzione, salute ecc. - determinando un progressivo e generalizzato miglioramento della qualità della vita, e la tecnologia interverrebbe a compensare eventuali deficit e risolvere le inevitabili difficoltà di percorso.
Già negli anni ’70 questa definizione di Sviluppo comincia ad attirare le prime sostanziali critiche che mettono in discussione, insieme all’approccio teorico, le politiche economiche ad esso collegate. Innanzitutto, ricercatori e scienziati iniziano ad interrogarsi sui limiti oggettivi di uno sviluppo tutto orientato all’aumento di produzione e consumi e a prefigurare l’impossibilità di una crescita economica illimitata in un contesto limitato. Nel 1972, il Rapporto sui limiti della Crescita (ricerca commissionata dal Club di Roma al MIT-Massachusetts Institute of Technology di Boston) simula le conseguenze della crescita economica sull’ecosistema terrestre, prevedendo seri problemi per il pianeta e per la stessa sopravvivenza della specie umana qualora popolazione, produzione, inquinamento ecc. continuassero ad aumentare ai ritmi attuali. |
Nel 1992, un aggiornamento del Rapporto informa sul superamento dei limiti della “capacità di carico” del pianeta e un ulteriore aggiornamento del 2004 - che misura l’impatto dell’uomo sulla Terra attraverso il calcolo dell’impronta ecologica[3] – stima questa capacità di carico già superata del 20%, nonostante il cosiddetto sviluppo (sempre inteso come crescita di produzione e consumi) sia ancora circoscritto a pochi paesi e ad una minoranza di persone. Inoltre, ricerche dirette a misurare le conseguenze della crescita del PIL nei paesi poveri sembrano contraddire l’ottimismo dei fautori della crescita economica. Disaggregando il dato della “crescita” si verifica infatti che spesso questa sta a segnalare la costituzione di sacche concentrate di ricchezza - privilegio di ristrette élites o addirittura di poche famiglie – anziché il generale miglioramento delle condizioni di vita all’interno delle società, e che a crescere sono le differenze sociali e i patrimoni di alcuni fortunati più che il tenore di vita dell’intera popolazione.
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Si verifica cioè una progressiva polarizzazione dei redditi, riscontrabile non solo nei paesi “sottosviluppati” – dove molte ricchezze derivano da aiuti mal diretti e peggio amministrati [4]; ma anche nei paesi “sviluppati”, dove nell’ultimo ventennio aumenta (in alcuni casi, es. USA e Italia, in maniera rilevante) la distanza tra il 20% più ricco e il 20% più povero della popolazione.
Diventa, insomma, sempre più evidente che questo tipo di sviluppo va in direzione contraria a quella dichiarata: lungi dal creare ricchezza e benessere per tutti, distrugge progressivamente le risorse del pianeta mettendone a rischio il futuro ed acuisce gli squilibri sociali, ampliando il fossato tra i pochi che dispongono di risorse e potere e i molti che ne restano privi. Col venir meno della fiducia nel potere trainante della crescita economica, tra gli anni ’80 e ’90 inizia a farsi strada un diverso approccio, multidimensionale, ai concetti di Povertà e di Sviluppo. La Povertà, tradizionalmente intesa come mancanza di beni e risorse, viene riletta come “impotenza”, mancanza di libertà (libertà di esprimere le proprie capacità) e di possibilità (il poter fare). |
Lo Sviluppo si svincola dalla dimensione economico-produttivistica e approda a quella socio-esistenziale del “ben-essere” (espansione delle “libertà reali” degli esseri umani, acquisizione di capacità e della possibilità di metterle in pratica)[5], centrata sulla qualità della vita più che sul reddito.
Il concetto di sviluppo si trova quindi messo in discussione su due fronti: da un lato crisi economiche, sociali, ambientali che si ripetono a cadenza regolare - e con effetti sempre più devastanti - mettendone in discussione gli stessi presupposti; dall’altro contestazioni teoriche e politiche, figlie del crescente disagio sociale, che ipotizzano che la strada per la crescita economica e quella per il benessere vadano in direzioni diverse e forse antitetiche. Di fronte alla palese inadeguatezza di una difesa d’ufficio dello sviluppo - che assicura la superabilità delle crisi e stronca qualunque critica come ideologica se non reazionaria - emergono riflessioni più articolate che puntano ad una rielaborazione del concetto attraverso l’uso di parametri e strumenti di misurazione che tengano conto almeno delle criticità più evidenti, in primis la limitatezza delle risorse del pianeta e i diritti di tutti i suoi abitanti inclusi quelli futuri. La possibilità di uno sviluppo generalizzato viene quindi subordinata all’adozione di pratiche rispettose di queste priorità, in uno sforzo di revisione – teorica ed operativa – che produce i nuovi concetti di Sviluppo Umano e Sviluppo Sostenibile, mentre l’accentuarsi dei flussi migratori e del loro impatto sui territori di destinazione suggerisce l’adozione di nuove strategie dirette a collegare, anziché contrapporre, Nord e Sud in un’ottica di Co-sviluppo. Negli stessi anni un filone di pensiero più radicale – che nasce negli anni ’70 ma diventerà movimento un ventennio più tardi - arriva a mettere in discussione lo stesso termine “sviluppo” e il modello di produzione e consumo ad esso collegato, proponendo l’alternativa della Decrescita. |
Negli anni successivi, questi ultimi Paesi sono stati definiti con la formula ”PVS - Paesi in Via di Sviluppo”. Attualmente anche questo termine è in discussione e viene a volte sostituito con “Paesi Impoveriti”, “Paesi Emergenti Meno Sviluppati” o altre definizioni.
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Il Prodotto Interno Lordo indica il valore complessivo di beni e servizi destinati ad usi finali e prodotti in un paese in un dato arco di tempo, generalmente un anno.
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L’impronta ecologica – concetto introdotto nel 1996 da M. Wackernagel e W. Rees – mette in relazione il consumo umano di risorse naturali con la capacità della Terra di rigenerarle. Secondo Wackernagel nel 1961 l’umanità usava il 70% della capacità globale della biosfera ma nel 1999 era già arrivata al 120%.
In altre parole consumiamo più risorse di quelle che la terra riesca a rigenerare, come dimostra il fatto che l’Overshoot Day (il giorno di ogni anno in cui si esauriscono le risorse rinnovabili) sta sensibilmente anticipando: nel 1986 cadeva il 31 dicembre, nel 2008 il 23 settembre, nel 2010 è caduto il 21 agosto, nel 2030 (secondo proiezioni delle Nazioni Unite) in mancanza di correttivi economici cadrà il 1° luglio. Questi consumi eccedenti la biocapacità del pianeta sono prevalentemente imputabili ai Paesi ricchi. Il Global Footprint Network, che da anni calcola l’impronta ecologica corrispondente ai vari stili di vita, ci avverte che già oggi consumiamo le risorse di un pianeta e mezzo e riusciamo a sopravvivere grazie ai consumi dei Paesi poveri che restano ampiamente al di sotto della biocapacità del pianeta. Se tutti gli esseri umani consumassero quanto un abitante degli Emirati Arabi avremmo bisogno di 6 Terre, ne servirebbero 4.5 se consumassero quanto un abitante degli Stati Uniti e “solo” 2.8 se tutti consumassero quanto un italiano. |
L’economista africana Dambisa Moyo scrive: “Grazie agli aiuti, la corruzione favorisce la corruzione, e le nazioni piombano in un circolo vizioso di assistenzialismo. l paesi esteri appoggiano governi corrotti, fornendo loro denaro da usare liberamente. Questi governi corrotti interferiscono con la legalità, la creazione di istituzioni civili trasparenti e la difesa delle libertà civili, scoraggiando gli investimenti sia interni che esteri. Maggiore ambiguità e minori investimenti riducono la crescita economica, che porta a minori occasioni di lavoro e aumenta i livelli di povertà. In risposta alla miseria crescente, i donatori offrono più aiuti, che fanno proseguire la spirale verso il basso. Questo è il circolo vizioso degli aiuti.” (Dambisa Moyo, La carità che uccide, Rizzoli, Milano 2010, p.91).
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Cfr. Amartya Sen, Lo sviluppo è libertà, A. Mondadori Editore S.p.A, Milano 2000 e Duncan Green, Dalla povertà al potere. Come la cittadinanza attiva e gli stati efficaci possono cambiare il mondo, Coedizione Altra Economia Soc. Coop., Milano 2009.
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Edizione contenuti Aprile 2012 - Riedizione grafica Luglio 2013
Copyright 2012-2013 ® Comitato Cittadino per la Cooperazione Decentrata della Città di Roma. Tutti i Diritti Riservati.
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