Diritti - I diritti umaniIl dibattito sull’idea dei diritti umani
Il contrasto tra la forza d'attrazione esercitata dall'idea dei diritti umani e lo scetticismo espresso da più parti sulla sua consistenza teorica e attuabilità pratica, accompagna, come è stato osservato, il cammino teorico e storico di tale idea. Nel 1792, negli anni immediatamente successivi alla Dichiarazione d'indipendenza degli Stati Uniti (4 luglio 1776) e alla Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino della Rivoluzione francese (26 agosto 1789), Jeremy Bentham elabora una delle più pungenti e deridenti critiche della dottrina dei diritti umani, intesi in senso pre-legale, cioè come diritti naturali e imprescrittibili. Li classifica come un “non senso retorico”, delle "sciocchezze su trampoli” (Bentham, 1981). Anche per Hegel, seguito più tardi sulla stessa posizione da Marx, il giusnaturalismo, la legittimazione dei diritti umani in quanto derivati direttamente dalla "natura" dell'uomo, va respinta. Non c'è diritto senza Stato, unica fonte della sua positività e legittimità. A metà del XX secolo, il confronto sull’affermazione o negazione dei diritti umani cambia; passa da una dimensione prevalentemente filosofico-giuridica ad una culturale-politica. In quegli anni, il relativismo culturale sostiene l’unicità delle culture e l’assolutezza delle reciproche differenze, riconoscendo quindi come diritto solo ciò che una determinata visione culturale definisce come tale. Le sue tesi inclinano a far coincidere “diritto” con “tradizione”, “buono” con ”antico”, “obbligatorio” con “consuetudinario (Donnelly, 2007; 295). Valutano così il rispetto o la violazione di un determinato diritto alla luce dei valori della società in cui si verificano, senza prendere in considerazione le diversità ad essa interna, le conflittualità e i rapporti di dominio che la permeano e che in tali valori trovano espressione e, soprattutto, la sua dinamicità ed evoluzione nel tempo. Il 1989 e la fine della contrapposizione est-ovest, segnano a loro volta l’inizio di una nuova fase: minacce sempre più globali e nuovi e drammatici conflitti portano contemporaneamente ad estendere la gamma dei diritti riconosciuti come umani, e ad interventi (Bosnia, Afganistan, Iraq, Kosovo), in più casi di discutibile legittimità ed incerto esito. Una nuova ondata di relativismo, alimentata principalmente dagli studi post coloniali, torna a formulare critiche alla dottrina dei diritti umani, denunciandone questa volta l’uso retorico e strumentale volto alla legittimazione dell’azione interventista dell’occidente (Wallerstein, 2007; Zizek, 2005). Il richiamo crescente ai diritti umani assume infatti, in più casi, una dimensione giustificatoria dell’imposizione di interessi di parte e di modelli sociali e politici rispondenti a processi storici propri di determinati contesti e non immediatamente universalizzabili (vedasi le dinamiche dell’intervento in Iraq). Numerose sono di conseguenza le critiche ai “lati oscuri della virtù” (Kennedy, 2004), all’umanitarismo imperiale dell’occidente o anche all’egoismo dell’altruismo (Vaux, 2003). Nella stessa congiuntura, significativamente, anche la rivendicazione dell’unicità delle culture si traduce in vessillo di regimi autoritari e dispotici, alla ricerca di legittimità per le loro pratiche coercitive ed escludenti (esemplare la posizione di Lee Kuan Yewe a Vienna, nel 1983, a difesa della assoluta particolarità dei valori asiatici). E’ da notare tuttavia che, se i diritti umani sono stati e sono molte volte discorso strumentale alla legittimazione di un potere oppressore o di potenze interventiste, sono anche stati e sono, al tempo stesso. il riferimento dei movimenti di liberazione nazionale, anticoloniali e di opposizione a regimi dittatoriali di vario tipo, in tutte le aree geopolitiche (Benhabib, 2008; Goodhart, 2008). Zizek, critico radicale della "falsa universalità ideologica dei diritti umani", coglie e sottolinea precisamente il processo attraverso cui i dominati possono ribaltare i diritti da strumento di dominazione in aspirazione alla libertà. Cita il culto della Vergine di Guadalupe, in Messico, come manifestazione di appropriazione del cristianesimo da parte della popolazione india (Zizek, 2005; 72-73) . Il caso di Haiti, per quanto riguarda la politica, e' altrettanto emblematico. Nel 1804, la nascita della prima repubblica nera trae la sua linfa dalla trasformazione che l'allora colonia francese fa dei principi del 1789 in fondamento della lotta per l’indipendenza da Parigi. La capacità di attrazione che i diritti umani hanno rafforzato negli ultimi decenni, in culture e continenti diversi, proprio quando conflitti ed interventi ne confermano ed estendono l’uso strumentale, deriva direttamente dalla loro forza positiva che l'ambiguità dell'idea non cancella (Donnelly, 2007; Goodhart, 2008). I diritti umani come aspirazioni etiche D'altra parte, nella seconda metà del secolo scorso, muta anche la prospettiva dei più autorevoli sostenitori della universalità dei diritti umani e si colloca al di là del quadro che domina il dibattito filosofico e politico del XVIII e XIX secolo e in parte del XX, attribuendo loro lo status di domande etiche (Sen, 2000; 2004; 2010), di indicazioni morali da raccogliere nell'azione legislativa (Beist, 2001), di ispiratori della legge (Hart 1955; 2010). Il termine di diritto non viene ristretto più alla sola connotazione giuridica ma gliene viene riconosciuta anche una etica: cambia in tal modo, dalle fondamenta, l’approccio al tema. I diritti umani divengono libertà fondamentali, di valore universale, proprie di ogni uomo senza eccezioni, che non dipendono per il loro riconoscimento dalla legge ma scaturiscono da un processo etico. Nella visione di Beist (2001), i diritti umani hanno un ruolo di “pietra di paragone morale”, rappresentano un criterio di valutazione delle istituzioni nazionali, di guida alla loro riforma, e di esame delle politiche e pratiche delle organizzazioni economiche e politiche internazionali. Sen parla esplicitamente di "diritti come mete" (1985), intendendo sottolineare il loro carattere di pronunciamenti etici su ciò che andrebbe fatto, di sollecitazione nei confronti delle iniziative legislative e dei cambiamenti culturali. La loro richiesta di farsi legge è da considerare espressione diretta dell’esigenza etica di riconoscere l’importanza di determinate libertà e degli obblighi corrispondenti: in tal modo i diritti divengono i “genitori” della legge e non i “figli” (Hart, 1955), come affermato da Bentham e dai sostenitori del diritto positivo. Al tempo stesso, la piena fattibilità dei diritti umani costituisce una metà che non toglie validità al loro riconoscimento anche lì dove le circostanze ne limitano l’esercizio; essi rappresentano un invito all’azione, al cambiamento sociale, non subordinato alla sua piena attuazione. Non solo le istituzioni. Ogni uomo è titolare ed insieme tutore dei diritti umani La Dichiarazione universale dei diritti umani, adottata dalle Nazioni Unite il 10 dicembre del 1948, costituisce una delle principali espressioni di tale visione che incardina i diritti umani su una base etica. Essa rappresenta il riferimento fondamentale per l’internazionalizzazione della legislazione sui diritti umani e segna, contemporaneamente, l’emergere di un nuovo soggetto, la società civile globale, quale espressione della coscienza nascente che ogni e ciascun uomo è portatore di diritti non solo come membro di uno Stato determinato ma anche in virtù della propria umanità, della sua appartenenza a una comunità globale, (Benhabib, 2008). Si tratta di una rottura netta con il passato perché rappresenta il superamento di una idea e di una azione esclusivamente ristrette alla sfera istituzionale e il riconoscimento invece della diversità delle forme della promozione e tutela dei diritti umani, cosi come della varietà e ricchezza degli attori chiamati a tale compito. Esemplificativo, al riguardo, il ruolo rilevante svolto nei passati decenni da Amnesty International, Human Rights Watch e dalle numerose altre associazioni di analogo impegno nella sensibilizzazione dell’opinione pubblica, nel monitoraggio dell’azione di Stati ed organizzazioni internazionali, e nella realizzazione di campagne nazionali e globali di denuncia di violazioni e appello a politiche ed interventi di tutela. E’ significativo che la formazione nel 1971 di Médecins sans frontières, ong impegnata nel soccorso medico in aree di crisi, segni la nascita del “sansfrontierisme ”, di quella visione che ritiene che si possa incidere sulle cause sociali e politiche dell’ingiustizia promuovendo un movimento di opinione, di dimensione transazionale e autonomo rispetto agli Stati (Petch e Padis, 2004), e che attribuisce quindi alla società civile una dimensione globale un protagonismo fino a quel momento inediti. In tale nuovo approccio l’informazione, la formazione, il cambiamento dei comportamenti, la dimensione pubblica del ragionare, svolgono un ruolo importante, non alternativo ma di uguale, se non di maggiore rilievo di quello delle istituzioni. Per altri aspetti, lo scarto tra il piano internazionale su cui si collocano le Dichiarazioni e Convenzioni delle Nazioni Unite e il piano nazionale, gli Stati, cui è affidata la promozione e la garanzia del rispetto dei diritti umani, apre ampio spazio sia all’assenza di tutela sia a interventi selettivi e strumentali. Anche per questo, a prova della complessità e potenziale ambiguità dell’idea di diritti umani, le critiche ne evidenziano l’assenza di coerenza oltre che di legittimità, mettendo in primo piano il trattarsi di diritti cui manca la garanzia di un'autorità preposta a tutelarne l’esercizio e a sanzionare eventuali violazioni. Una tale critica disconosce la presenza, al lato degli "obblighi perfetti", caratterizzati da una definizione precisa di diritti e doveri, di un'altra classe di obbligazioni richiamata da Immanuel Kant e più recentemente da Sen, gli "obblighi imperfetti”. I doveri corrispondenti a questi ultimi non sono automaticamente stabiliti, privi di vincoli, ma il loro contenuto va stabilito caso per caso, tenendo presenti circostanze e variabilità sociali (Sen, 2004; 2010). In presenza di una violazione obbligano ad intervenire ma il come è condizionato dalla congiuntura personale e situazionale di ognuno. Tale visione non attribuisce l'azione volta ad assicurare il rispetto dei diritti umani a una istituzione determinata o ad uno Stato specifico, ma la estende fino a coinvolgere ogni uomo, tenuto conto delle sue possibilità e capacità. Non toglie importanza all'impegno di istituzioni nazionali, regionali e sovranazionali come la Corte penale internazionale creata in ambito Nazioni Unite o la Corte europea dei diritti dell’uomo, ma radica la loro forza nell'esistenza di una responsabilità più ampia che interroga ogni uomo e lo sollecita ad adoperarsi attivamente, nei limiti delle proprie condizioni, a favore del rispetto dei diritti umani, e che fa della società civile globale una barriera contro la loro strumentalizzazione. E’ questo l’aspetto più moderno della nuova idea di diritti umani. Qual è la fonte dell’universalità dei diritti umani? Cosa distingue però i diritti umani dalle più generali istanze etiche? Quando una determinata libertà diviene un diritto umano? Cosa ne assicura l'universalità, visto che non si fa appello a un diritto naturale? Per trovare risposte occorre non ignorare che il riconoscimento della loro universalità non costituisce un punto da arrivo ma, al contrario, l'avvio di un confronto sulla comprensione ed estensione da dare a tale concetto. Apre cioè ad una diversità di letture che non è possibile ignorare pena l’ambiguità teorica e politica (Goodhart, 2008). I diritti umani sono allora da intendere come un “nocciolo” duro, comune alle molteplici e diverse concezioni morali? Il “cuore” di una morale universale “sottile” (thin), come pensa Walzer (1994)? O sono, invece, riconducibili a un “consenso per intersezione”, “overlapping consensus”, che li legittima se accettati da persone ragionevoli quando, pur se non esplicitamente presenti nella propria visione morale, non sono in conflitto con la concezione di giustizia da essa espressa? Tale prospettiva che si richiama a Rawls, tenta di individuare il filo rosso che unisce le diverse culture nella loro condivisione della concezione politica di giustizia, scissa da quella morale e da questa relativamente indipendente. L’universalità può allora divenire “universalità relativa”, articolata in tre distinte dimensioni, che permettono di unire all’universalità del concetto, la relatività e contingenza delle concezioni e delle pratiche in cui si esprime (Donnelly, 2007). O, ancora, universalismo e relativismo sono concetti da abbandonare, insieme alla ricerca di una loro fondazione ontologica? In quest’ultimo caso, la legittimità viene fatta derivare dalla forza di attrazione globale che da essi promana come “aspirazione” e protezione di fronte alle minacce di poteri diversi ma ugualmente oppressori (Stati, organismi internazionali, rapporti di lavoro, familiari…), attrazione che ogni giorno si fa più manifesta e trasversale a culture e popoli (Goodhart, 2008). Noi pensiamo di non poter accettare nessuna delle tesi riportate; la prima perché sostiene una visione di cultura vista come unità omogenea e coerente, chiusa al cambiamento, ridotta in ultima istanza ad espressione dei gruppi dominanti. Le altre perché, pur nella loro diversità e impegno a sfuggire ad una concezione di cultura come destino, continuano a condividere una concezione statica della stessa o non affrontano fino in fondo la questione dell’origine della forza di attrazione che riconoscono all’idea di diritti umani. D’altra parte, una prova dell’importanza cruciale della ricerca di un universalismo capace di sfuggire, in un mondo sempre più globale, sia all’universalismo astratto che al relativismo assoluto è data dalla sua presenza in pensatori tanto diversi per quadri concettuali come Wallerstein (2007) e Beck (2005). Entrambi sono impegnati a dare aggettivi all’universale, rivendicando il primo un “universalismo universale”, il secondo un “universalismo contestuale". Entrambi, significativamente, richiamano la disputa che, all’epoca della conquista dell’America, contrappose Sepulveda e Las Casas sulla questione degli indios. Nell’analisi di Sen (2004, 2010), che condividiamo, per superare difficoltà e ambiguità occorre apprendere a ragionare per soglie, e quella che segna l’universalità di un diritto è la rilevanza che un processo interattivo di valutazione critica a imparzialità aperta attribuisce ad una piuttosto che ad un'altra libertà. Mentre la base della valutazione e' costituita dal pubblico ragionare, l'imparzialità aperta richiede che il confronto avvenga tra visioni appartenenti a comunità e paesi diversi, mettendo in campo quella “certa distanza”, quella lontananza fisica e culturale che Adam Smith (1991) considera decisiva. E' proprio tale distanza a permettere di superare l’angustia di orizzonti troppo ristretti, il provincialismo di prospettive esclusivamente localiste, parrocchiali, e a garantire l’universalità dei diritti umani. Consente di sfuggire al contempo, sia all’universalismo astratto, che omologa tutto e ignora le differenze, sia al relativismo culturale o anche “assolutismo culturale” (Howard, 1993) che, portatore di una visione delle culture come assolutamente diverse, monadi senza porte e senza finestre, finisce per concepire il conflitto e la negazione reciproca come unico possibile rapporto (Beck, 2005). Nel primo caso, l’altro è riconosciuto solo in quanto ne viene disconosciuta l’alterità, nel secondo, l’altro è l’assolutamente estraneo, un nemico da eliminare. Entrambe le tendenze sono divenute supporto, come abbiamo visto, di discorsi e politiche di affermazione o di negazione strumentale dei diritti umani. I diritti umani come risultato di un processo di interazione aperto e informato I diritti umani costituiscono pertanto istanze etiche la cui legittimità è confermata dalla rilevanza ad esse attribuita da un esame aperto e informato, continuo e interattivo, inclusivo di argomentazioni provenienti da universi culturali diversi, vicini e lontani, il quale porta al mutamento delle posizioni inizialmente presenti e di conseguenza alla costruzione di riferimenti e valori condivisi. Questi scaturiscono da quel processo di “interazione” (Sen, 2004), a cui significativamente i regimi autoritari si negano. Alla base di tale interazione c’è una visione delle culture come intreccio di identità, insiemi in sé articolati e in movimento, diversi ma, al tempo stesso, attraversati da influenze che si sviluppano nel tempo. Processi ibridi, senza centro, nelle parole di Benhabib (2008). Paradigmatica al riguardo l'analisi che Sen propone dei cosiddetti valori asiatici, mettendone in luce le differenze e tensioni interne e il ricorrere di principi quali la tolleranza e la libertà, considerati a torto, da alcuni, come distintivi della cultura occidentale, segnata anch’essa, invece, da un'analoga successione di affermazioni e negazioni degli stessi. Atene è stata la culla della democrazia, ma l’Atene di Aristotele non negava l’uguaglianza nella libertà a donne, schiavi e non ateniesi? All’Asia è stata più volte attribuita una cultura autoritaria, ma gli editti di Ashoka (III sec. a.C.) e di Akbar (1556-1605 p.C.), in tempi fra loro tanto lontani, non rappresentano forse una manifestazione di tolleranza e riconoscimento del valore della libertà? Si tratta di trascendere schematismi e semplificazioni, di non ignorare la diversità delle culture ma neanche le interazioni e influenze reciproche, alla base della capacità di intendersi e di utilizzare ciò che è stato creato dall’una o dall’altra (Sen, 2010). I diritti umani: le generazioni Quando si colloca la questione teorica dei diritti umani nel contesto politico e sociale, le fasi della loro affermazione come parte costitutiva del diritto internazionale sono scandite in primo luogo dall’adozione da parte dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite della Dichiarazione universale dei diritti umani a cui segue quella delle due Convenzioni internazionali, la Convenzione internazionale sui diritti economici, sociali e culturali e la Convenzione internazionale sui diritti civili e politici, entrambe votate all'unanimità il 16 dicembre 1966. La forza di persuasione esercitata dalla Dichiarazione (Sen, 2009) apre passo negli anni successivi all’approvazione di numerose Convenzioni internazionali e interventi legislativi nazionali che precisano ed estendono il riconoscimento dei diritti umani a campi e soggetti specifici (bambini, donne, portatori di disabilità …; salute, ambiente, privacy …). Nel 1993, a Vienna, la Conferenza mondiale sui diritti umani, organizzata dalle Nazioni Unite, nella sua Dichiarazione di principi, sottoscritta da 171 Stati membri, ribadisce autorevolmente che tali diritti sono “universali, indivisibili, interdipendenti e interconnessi” (United Nations, 1993). Tale dimensione storica dei diritti umani ha spinto numerosi studiosi a classificarli ricorrendo alla categoria di "generazione" (Vasak, 1979; Bobbio, 1990; Sen, 2004; 2010). Le obiezioni anche linguistiche avanzate al suo uso, obbligano a precisare da subito che generazione, in questo contesto, ha una connotazione diacronica e insieme sincronica, cioè che il riconoscimento in tempi successivi di determinati diritti non annulla, in alcun modo, la vigenza di quelli anteriori. Nel nostro caso, per tracciarne un indice, prenderemo come riferimento la categorizzazione proposta da Karel Vasak, pur tenendo presente che altri studiosi ne propongono altre. Charles Beist, per esempio, parla di cinque classi e taluni, come già Bobbio iniziava a fare nel 1990, alle tre generazioni di Vasak ne aggiungono una quarta in cui includono diritti quali la difesa della privacy e della sicurezza in rete, legati principalmente allo sviluppo dell'informatica e delle telecomunicazioni. Parleremo quindi di tre generazioni: la prima segnata dal riconoscimento dei diritti civili e politici, la seconda da quello dei diritti economici, sociali e culturali, e la terza da quello dei diritti di solidarietà. Libertà, uguaglianza, fraternità, i principi-guida della Rivoluzione del 1789, più di una volta sono stati posti, a partire da Vasak, alla base delle tre classi di diritti elencate. In alcuni casi, le tre generazioni sono state fatte anche corrispondere, nella loro successione, ad emanazione, rispettivamente, del mondo occidentale, di quello socialista e del terzo mondo (Donnelly, 2007): 1. Prima generazione: Diritto alla vita, alla libertà di pensiero, di coscienza e religione, di associazione, di espressione, di stampa, etc. Sono diritti definibili anche come libertà negative, libertà di …, perché rappresentano la possibilità di esercitare capacità che corrispondono alle singole persone. 2. Seconda generazione: Diritto al lavoro, all'istruzione, alla salute, all’alimentazione, alla casa, etc. Sono anche definibili come libertà positive, libertà da …, perché il loro pieno esercizio richiede l’assenza di una serie di limitazioni e quindi un intervento dello Stato volto a garantire uguaglianza di opportunità. 3. Terza generazione: Diritto alla pace, all'ambiente, allo sviluppo, al patrimonio comune dell'umanità. Diversamente dalle generazioni precedenti, costituiscono libertà comuni all’intera umanità, al di là delle divisioni in Stati o nazioni, e rimandano ad un legame di solidarietà. "I diritti umani non stanno scritti nelle stelle” A mo' di epilogo: “L’esistenza e il valore dei diritti umani non stanno scritti nelle stelle” come diceva Albert Einstein, ma nella coscienza morale scaturita dall’interazione continua, aperta e informata di visioni e culture diverse; spetta a ognuno di noi, individualmente e nelle istituzioni, qualsiasi sia il paese e la cultura di appartenenza, riconoscersi responsabile e impegnarsi per una loro sempre migliore definizione e attuazione. Vanna Ianni |
Edizione contenuti Aprile 2012 - Riedizione grafica Luglio 2013
Copyright 2012-2013 ® Comitato Cittadino per la Cooperazione Decentrata della Città di Roma. Tutti i Diritti Riservati.
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