Diritti - La PSICHE migranteIl migrante figura e paziente mitico
L'idea che i migranti siano solo riducibili a problemi pratici o di regolarizzazione è sicuramente fuor-viante. Infatti i termini psiche e migrante rappresentano, in realtà, due orizzonti che richiedono nuovi atteggiamenti mentali per nuovi interventi, che coinvolgono chi vuole veramente scendere in campo e mettersi un po' in gioco. Prima di morire, lo scrittore Stefan Zweig scrisse con il consueto e a volte un po' amaro senso dell'ironia: "Prima pensavo che l'uomo fosse composto di corpo e di anima; adesso, vecchio, mi sono accorto che c'è il corpo, l'anima e il passaporto!". Zweig voleva dire che esistono delle condizioni nelle quali l'esistenza stessa dell'individuo dipende ormai dalla carta d'identità, dal passaporto, dalla green card, dal papier, da tutti quegli elementi che ormai decidono e definiscono la sua identità. Questa dipendenza riguarda oggi soprattutto una delle figure più emblematiche del nostro tempo: il migrante. Una persona continuamente sospesa fra di un di qua e un di là, fra due diversi tic-tac di orologi, fra una cultura che lascia e una che trova, non sempre protesa ad accoglierlo, fra l'oppressione della globalizzazione e la voglia del localismo, fra la speranza dell'integrazione e il desiderio del rispetto delle differenze. Da tempo assistiamo a dibattiti, proposte, simposi che spesso partono da una idea “mitica” del migrante, quasi da una “invenzione dell'altro”, che sembra allontanarsi sempre più da quella reale. Per “capirlo” di più, il migrante, si stanno improntando derive scientifiche, tecnocratiche e super specialistiche che, più che farci avvicinare, rischiano di renderci sempre più distanti dai suoi bisogni reali Si può esporsi così a farlo diventare una figura simile a quella di un “certo paziente” - mitico – di cui i parla in alcuni congressi scientifici di psichiatria, dove si presenta spesso un “malato” ideale, costruito più per spiegare il funzionamento di un certo farmaco, avulso dalla sua storia e dal “suo essere nel mondo”. Come non ricordare, a questo proposito, gli studi mai superati di Ernesto De Martino che vedeva nella “crisi della presenza” le origini dei tanti disagi dell'uomo moderno, o quelli dello psichiatra Michele Risso che, lavorando negli anni sessanta tra i “nostri emigrati” in Svizzera, aveva potuto capire come determinati disturbi (delirio di fattura, rappresentazioni magiche della malattia che colpivano alcuni nostri connazionali) venivano gestiti, “spiegati” e curati all'interno della propria comunità con le sue regole basate sull'accoglienza piuttosto che sull'espulsione. Questo richiamo vorrebbe far riflettere su quanto sia importante cercare di ridare continuità, senso della storia e significato a disagi e sindromi che producono i processi migratori, destrutturanti e per questo a alta intensità conflittuale. L'emigrazione è un “terremoto”, affermava Karl Jasper in tempi non sospetti. Si vorrebbe altresì evitare la nascita di neo discipline con il pretesto di comprendere l”Eterno Altro” . Si stanno preparando ennesimi “territori di caccia” come avvenne, a suo tempo, in America dove, per studiare “meglio” le problematiche psichiche degli indiani si inventò una branca “ad hoc”: la Folk Psychiatry! In realtà questa figura ci muove, anzi ci smuove, dentro un qualcosa di antico, di atavico, un qualcosa che ha a che fare con le nostre radici. Un'opportunità per farci confrontare alla fine, con quanto, nel profondo, ci sentiamo stranieri a noi stessi. Le sensazioni di disagio e di malessere che talvolta possono provocare, sono da mettere in relazione con i nostri ben strutturati meccanismi di difesa, pronti a scattare,quando sentono odor di minaccia alla nostra stabilità (presunta!). In ogni caso non dobbiamo dimenticare che l'uomo è sostanzialmente una "frontiera", proteso fra due luoghi, fra zone note e non, fra rischi di perdersi in attraversamenti “altri” e facili consolidamenti di posizioni note. L'alterità può divenire allora un ulteriore momento di noi stessi, un arricchimento, una risorsa. Un processo foriero di nuove possibilità per creare nuove zone, di entrare in un dialogo vero, in movimento, non basato su concezioni mitiche e statiche. La vergognosa legge sull'immigrazione si distanzia "ampiamente" da questi principi, creando una nuova categoria di emarginati, senza spazio e senza tempo: i clandestini, gli irregolari. La loro "non-situazione" li espone fra tanti disagi, anche a grosse difficoltà psichiche. Essi possono andare incontro a shock culturali, sindromi da sradicamento, e tulle quelle forme di sofferenza indicate sotto il nome di "patologia della transizione", se non si creano delle condizioni igienico-mentali (una vera accoglienza,luoghi culturali dell'incontro, dell'ascolto) adatte a costruire nuovi tempi e significati. Questo processo è spesso caratterizzato da pause e silenzi difficili da interpretare e tradurre soprattutto per chi, fra di noi, ha ormai "trapiantato" nel proprio cervello un orologio sincronizzato solo su un certo tipo di tempo, di rumore, di frenesia. Come non ricordare a questo punto, nella nostra cultura, le sindromi depressive che spesso insorgono durante il fine settimana, quando il contatto con un altro tipo di tempo, quello del riposo o della pausa da certi ritmi, provoca malessere invece che disponibilità alla riflessione? E come non interrogarsi su quale contributo in questo delicato problema ("la psiche" che emigra sottoposta a tante pressioni) possa venire dagli operatori psichiatrici se non riescono a "passare attraverso" e non sopra mondi e modi culturali diversi dai nostri, contaminandosi con essi? Clandestini e irregolari: colpevolizzazione e disidentità La realtà è invece diversa. I clandestini si trovano in una situazione di colpevolizzazione incredibile: giudicati e condannati per reati non commessi, costretti a rimanere in appositi centri, dalla sigla oscura e ambigua aspettando perennemente la" sentenza" e non il minimo rispetto dei diritti umani! Questo quadro di sospensione tempo-spaziale può produrre gravi problemi connessi alla propria identità (disidentità) sviluppando una "sindrome dell'attesa" (La prima parola d'italiano che conoscono è: "aspetta"!) che mina le già precarie condizioni psichiche. I legislatori della nuova legge (!) hanno pensato a quello che avviene nella testa di chi è dovuto fuggire da chissà quale destino, venendo violentemente espropriato di due fra le categorie più importanti per la vita di ogni uomo? Il tempo, dilatato, incerto, senza misura, troppo lungo o troppo breve, vissuto spesso solo con timore per espulsioni vicine. Lo spazio, ristretto, incerto, angusto, chiuso, dove la mente diviene asfittica, Incapace di alcuna elaborazio-ne se non quelle di angoscia, di colpa, di rovina, di fuga. I migranti "irregolari" diventano così delle "non persone", private della possibilità di utilizzare quei "linguaggi" naturali, cioè fatti sì di carne e ossa, di sudore e fisicità, ma anche di pensieri e di emozioni, di pause per dei sogni di cambiamento, per divenire violentemente solo oggetti, casi drammatici di cui occuparsi in nome di una “emergenza” ormai codificata e mai risolta! Per poter avvicinarsi a queste particolari e complesse problematiche psichiche, è forse opportuno che la psicologia, prima di rischiare di diventare "una foglia di fico che copre le vergogne", come diceva Antonio Gramsci, si riappropri di quelle valenze di apertura verso il sociale e culturale che le sono proprie. Allora, di fronte a persone provenienti da culture diverse, più che l'eterno confronto e le instancabili statistiche analitico-comparative che lasciano tutto come sta, ci sarebbe bisogno di operatori disposti a formarsi in maniera nuova, con un pensiero permeabile agli attraversamenti nell’altrove e nell’altrui ,pur se con il rischio di lasciare/prendere qualcosa e di entrare così nel vivo dei propri stereotipi e preconcetti. Un pensiero/azione diverso, disponibile, anche diventare disponibili a "decentrarsi", a prestare attenzione a quelle derive periferiche del mondo che un'ottica troppo etnocentrica ha sempre trascurato prestando così più attenzione all'ascolto, al rispetto per il diverso. La cultura diviene cosi un momento di fisicizzazione dell'incontro con l'altro, un mosaico di pensieri pronti a contaminasi che, in un rapporto basato sulla reciprocità, possono ritrovare nuova linfa per un diverso conoscere. Un sapere dì pensieri nomadi che invitano a scommettersi, a tras-formarsi, a bagnarsi nell'altro, dove si possono conoscere gli spazi di oppressione e riduzione di ogni identità, I continui attentati a una vita vissuta sempre più in bilico. Queste cornici "mobili" ci possono aiutare a capire meglio dove sorge quella sofferenza psichica che poi, purtroppo, arriva compatta e ben strutturala nei nostri servizi psichiatrici territoriali e ospedalieri, cogliendoci spesso impreparati e soli con le nostre "tecniche". Forse è necessario cercare dì disegnare un vero e proprio "spazio biografico" dove poter raccontare e raccontarsi, creando possibili nuove narrazioni. La "stanza" (non solo come luogo fisico) dove s'incontra la "psiche dei migranti" forse non basta più. C'è invece bisogno di "ruote" mentali per spostarsi, per allargare i propri orizzonti, senza paura di perdere la propria "matrice culturale", ritenuta pura e incontaminabile, in difesa della quale siamo pronti ad arroccarci in fortini anacronistici, più che dare inizio alla costruzione di oasi di pensiero. I "guanti" mentali che noi talvolta adoperiamo per osservare questo tipo di realtà ci possono separare sempre di più dal processo trasformativo che è insito nel conoscere. Utopia? Nostalgia dell'impegno sociale di un tempo in cui si discuteva la neutralità della scienza e la "tecnicità" del ruolo degli operatori? In ogni caso solo passando non sopra, ma attraverso "la storia" di chi la racconta, e vivendola in prima persona, si può capire meglio chi si rivolge a noi. Si può forse e nonostante tutto, iniziare insieme un viaggio diverso, di conoscenza e aiuto, offrendo forse pochi punti di riferimento, necessari per "esserci". Il rischio "della presenza", fra i tanti, è forse quello psichicamente più dannoso, in quanto cancella ogni "orizzonte culturale", garanzia non solo per l'esistere nel mondo, ma anche poter essere partecipi alla costruzione di uno migliore!. Alfredo Ancora |
Edizione contenuti Aprile 2012 - Riedizione grafica Luglio 2013
Copyright 2012-2013 ® Comitato Cittadino per la Cooperazione Decentrata della Città di Roma. Tutti i Diritti Riservati.
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