Popolazioni indigeneDefinizione Originariamente erano considerati indigeni i gruppi pre-esistenti alla colonizzazione e quelli ritenuti diversi da altri segmenti (numericamente dominanti) delle società in cui vivono. Nel 1989, l’Organizzazione Internazionale del Lavoro (OIL) nella convenzione 170 (articolo1.1) formulò un altro principio: “L’auto-identificazione dei popoli indigeni sarà considerato come il criterio fondamentale per determinare i gruppi per i quali i principi di questa convenzione si applicano” Attualmente una definizione più larga è accettata. I Popoli indigeni sono gruppi culturalmente distinti che mantengono le proprie tradizioni culturali ed attività economiche (diverse dal resto della società maggioritaria in cui vivono) che si definiscono in rapporto al nesso particolare che hanno con i loro territori e le loro risorse naturali. Si stabilisce il principio dell’auto-identificazione. Importanza della Cosmogonia Indigena Uno dei tratti distintivi delle popolazioni indigene è la loro cosmogonia, che evidenzia le relazioni organiche che esistono tra gli esseri umani ed il mondo naturale; l’universo di simboli che descrive l’essere umano come parte integrante dell’ambiente e non come elemento dominante. Infatti, nel mondo indigeno c’é amore e rispetto profondo per la Madre Terra (Pancha Mama) e gratitudine verso i territori che accolgono i popoli. Gli animali sono trattati e amati come figli. I popoli indigeni sono in continua conversazione con le stelle, le roccie, i laghi, i fiumi, gli oceani, le piante, gli animali (selvaggi e domestici), le nuvole, il calore, il freddo... Gli indigeni si sentono parte della natura e debbono convivere con essa, prendersene cura per lasciarla in eredità alle generazioni future. Grazie a questo, le aree abitate dai popoli indigeni hanno conservato la biodiversità più importante al mondo. Questi popoli posseggono preziose conoscenze relative all’uso dei cibi tradizionali e delle pratiche agricole adattate a specifici ecosistemi. Attraverso i secoli hanno selezionato geneticamente sementi e specie animali adatte a vari micro climi. Grazie a questo ed al loro sistema ancestrale di scambio di sementi, animali, ecc. mantengono un complesso sistema di diversità agrobiologica. Per questo i popoli indigeni possono apportare enormi contributi alla sicurezza e sovranità alimentare di tutti[1]. Importanza Numerica, Vulnerabilità e Invisibili Anche se non disponiamo di statistiche precise, si stima che esistano circa 570 milioni di indigeni sparsi in tutti i continenti. In genere, indipendentemente dal paese che abitano, essi sono tra i più emarginati e vulnerabili: costituiscono all’incirca il 5% della popolazione mondiale e il 15% degli indigenti su scala globale. In molti paesi il loro livello di povertà materiale è rimasto invariato nel corso di decenni. Infatti, secondo uno studio recente della Banca Mondiale effettuato in 5 paesi dell’America Latina è stato rilevato che il loro divario di povertà (poverty gap) è più profondo e si è ridotto poco negli ultimi venti anni. Durante lo stesso periodo sono stati registrati scarsissimi progressi rispetto alla riduzione della povertà materiale e gli indicatori di educazione e salute sono peggiorati[2]. La loro vulnerabilità e le ingiustizie storiche che hanno subito (privazione dei loro territori e delle risorse naturali connesse) sono riconosciute a livello globale. Questo stato di emarginazione non ha permesso ai popoli indigeni di esercitare i propri diritti, di perseguire le proprie prospettive di sviluppo, di soddisfare i propri bisogni, nonché di mantenere le proprie tradizioni culturali e religiose. I popoli indigeni sono anche quelli meno partecipi delle strategie nazionali di riduzione di povertà (PRSP) e degli obbiettivi del millennio (MDGs). Infatti, una audit etnica dei PRSPs, effettuata nel 2004 dall’OIL in quattordici paesi, ha dimostrato che quasi tutti i PRSPs registravano una forte incidenza della povertà tra gli indigeni nelle zone da loro occupate. Ma poche o nessuna azione concreta era prevista per mettere fine a queste disparità[3]. Molti analisti hanno notato l’assenza generalizzata dei gruppi indigeni nella maggior parte del lavoro effettuato sugli MDGs. La Campagna per il Millennio non ha ancora preso in considerazione i popoli indigeni, e i paesi piloti del “Progetto per il Millennio” non hanno ancora preso provvedimenti in merito alle questioni indigene (terra, risorse naturali, cultura, diritti umani). Molti temono perfino che in alcuni casi il raggiungere degli obbiettivi si faccia a scapito di alcuni di questi gruppi. Contributo dei Popoli Indigeni Eppure, i popoli indigeni hanno molto da offrire al resto dell’umanità: La propria relazione spirituale con la natura ha permesso loro di mantenere quasi intatte le proprie risorse naturali. Uno studio recente fatto dall’IUCN mostra una corrispondenza (al 90%) tra le carte di più alta biodiversità nel mondo e i territori occupati dagli indigeni. Le loro conoscenze ancestrali specifiche sull’ ambiente (tecnologia, medicina, varietà di sementi, varietà di animali adattate al loro ambiente naturale, arte, musica..) sono un contributo vitale per il patrimonio umano; La ricchezza della loro diversità culturale è importantissima in questo mondo globalizzato che promuove l’uniformità. Rischi Attualmente gli indigeni sono esposti a molti rischi che minacciano la loro sopravvivenza come popoli e come detentori di un importante background conoscitivo (in campo spirituale e nell’ambito delle tecniche agricole e di allevamento degli animali): · le continue sottrazioni di territori e di risorse, strettamente legati alla sopravvivenza della loro cultura, determinate dagli interessi delle multinazionali e degli Stati (concessioni su foreste, miniere, piantagioni di olio di palma o di alberi da gomma, land grabbing per un’agricoltura intensiva o per la realizzazione di grandi opere - dighe, autostrade, complessi industriali, ecc.); · biopirateria; · perdita delle loro conoscenze tradizionali; ingegneria genetica e GMOs; · mutamenti climatici. Diritti dei Popoli Indigeni Negli ultimi 50 anni si verifica a livello globale l’intensificazione delle lotte indigene per la riappropriazione dei loro diritti sulla vita e sui territori. L’agenda dei diritti dei popoli indigeni appare per la prima volta nella prima convenzione sugli indigeni dell’OIL (107-1957) che però preconizza l’assimilazione delle popolazioni indigene alle società dominanti. Negli anni 60-70 le reti internazionali sui diritti umani (Antislavery Society, IWGIA, Survival International,.. ) focalizzano l’attenzione internazionale sulle violazioni dei diritti umani dei popoli indigeni richiedendo il rispetto della diversità culturale come alternativa al progetto assimilazionista. Negli anni 70 si verifica la proliferazione di organizzazioni indigene facenti “advocacy/lobbying”, soprattutto in America Latina nel contesto della riforma agraria. Dei movimenti simili sorgono anche in Nord America (USA e Canada) e in Australia (accento sulla violazione dei diritti umani piuttosto che solamente sugli aspetti socio-economici). Nel 1989, l’OIL ratifica una nuova convenzione (No.169) avente per oggetto i diritti dei popoli indigeni secondo un’ottica indirizzata allo sviluppo basato sulle prospettive e priorità autoctone. Una feritoia si è aperta; ciò permette ai movimenti ambientalisti di consolidarsi verso la fine degli 80. Il concetto di “sviluppo sostenibile” (rapporto Bruntland “Our Common Future, ’87) contribuisce ad aprire un varco per la partecipazione degli indigeni (endangered forests = engangered peoples) Il capitolo 26 dell’Agenda 21, (UNCED,92) dichiara: “Tenuto conto del nesso “ambiente-sviluppo sostenibile” e benessere culturale, sociale, economico e fisico delle popolazioni indigene, gli sforzi fatti a livello nazionale ed internazionale per arrivare a uno sviluppo sostenibile debbono riconoscere, promuovere e rinforzare il ruolo di questi popoli e delle loro comunità” Le Nazioni Unite dichiarano il 1993 “l’anno dei popoli indigeni” e poi la decade internazionale (1994 - 2005) . Un gruppo di lavoro viene creato nello stesso anno[4]; uno dei suoi compiti è quello di preparare una versione provvisoria della “Dichiarazione dei diritti delle popolazioni indigene” per poi sottoporla all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite. Nello stesso anno viene adottata la Convenzione sulla Diversità Biologica. L’articolo 8 (j) della Convenzione riconosce e protegge le conoscenze tradizionali indigene nella conservazione, protezione e l’uso consuetudinario della diversità biologica, mentre l’articolo 10 (c) riconosce l’uso consuetudinario sostenibile dell’ambiente. Nel 2002, la dichiarazione finale del Summit Mondiale sullo Sviluppo Sostenibile dichiara: “Riaffermiamo il ruolo dei popoli indigeni nello sviluppo sostenibile”. Nel 2002 viene creato il Foro Permanente delle Nazioni Unite sulle Questioni Indigene dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite (UNPFII). Questo Foro si riunisce ogni anno a New York ed è l’unica istanza nelle Nazioni Unite dove i rappresentanti dei popoli indigeni di tutto il mondo, quelli delle varie Agenzie del sistema delle Nazioni Unite e quelli degli Stati membri si riuniscono per due settimane per discutere argomenti rilevanti per gli indigeni[5]. Nel 2004 l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite proclama una seconda decade internazionale dei popoli indigeni (2005-2014) ed adotta un piano d’azione coordinato nel 2005[6]. Finalmente, il 13 Settembre 2007, l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite adotta la Dichiarazione delle Nazioni Unite sui diritti dei Popoli Indigeni. L’adozione della Dichiarazione segna una svolta epocale nelle lotte indigene durate più di 20 anni[7].É necessario ricordare che la Dichiarazione fa un compendio dei diritti umani esistenti e li applica ai popoli indigeni; non stabilisce nuovi diritti. La Dichiarazione si divide in 9 sezioni: un preambolo e 46 articoli. La prima sezione (Art. 1- 7) passa in rassegna i diritti individuali e collettivi degli indigeni, incluso il diritto all’autodeterminazione e alla conservazione delle proprie istituzioni. La seconda sezione (Art. 8-11) riafferma i diritti all’integrità fisica e mentale, alla libertà e sicurezza personale di questi popoli. La terza sezione (Art. 12-14) tratta di diritti spirituali e linguistici. La quarta (Art. 15-17) afferma il diritto all’istruzione nelle lingue native, il diritto all’informazione e al lavoro. La quinta (Art. 18-24) tratta i diritti alla partecipazione politica, allo sviluppo, al Consenso Libero, Previo e Informato e il diritto all’autodeterminazione politica. La sesta parte (Art. 25- 30) tratta di diritti ai territori e alle risorse afferenti. La settima (Art. 31-37) afferma il diritto alla proprietà intellettuale, alle conoscenze tradizionali, e i diritti acquisiti attraverso i trattati pre-esistenti. L’ottava sezione (Art 38-43) afferma l’impellenza di realizzare i contenuti della Dichiarazione, mentre l’ultima (Art. 44-46) prende in esame i limiti della Dichiarazione stessa. A partire dal momento in cui la Dichiarazione è stata adottata dall’Assemblea Generale dell’ONU, i popoli indigeni lottano nel tentativo di usufruire dei benefici da essa previsti: per esempio, i Koi-San in Sud Africa e i Quechua in Perù vi si sono appellati per ottenere il rimpatrio dei resti dei loro antenati esposti nei musei Londinesi (i Koi-San) o di specie di patate prelevate da centri di ricerca ma scomparse dal loro territorio (Perù), oppure per proteggere la loro proprietà intellettuale su piante medicinali. Attualmente la pratica più diffusa è il ricorso alle corti supreme nazionali (Raposa Sierra do Sol in Roraima, Brasile, in 2010 e San in Botswana in 2009 e 2010) o internazionali per il recupero dei territori sottratti ad opera dei Governi. Per esempio, i Maroons del Surinam nel 2009 fecero ricorso alla Corte Inter Americana sui Diritti Umani per ottenere i territori da cui erano stati espulsi; ugualmente, gli Endorois in Kenia, espulsi dai loro territori per la creazione di un parco Nazionale, fecero ricorso alla Commissione Africana sui Diritti Umani nel 2010 e vinsero. Vanda Altarelli NOTE [1] Michel Pimbert, Barter Markets in Peru, IIED, 2010 [2] Gillete Hall and Harry Anthony Patrinos “Indigenous Peoples, Poverty and Human Development in Latin America 1994-2004”, MacMillan 2006. I paesi studiati erano Bolivia, Ecuador, Guatemala, Mexico e Perù. [3] Manuela Tomei, Indigenous and Tribal Peoples An Ethnic Audit of Selected Poverty Reduction Strategy Papers, ILO Ginevra, 2005. I paesi i cui PRSP furono analizzati erano: Bangladesh, Bolivia, Camboga, Guyana, Honduras, Kenya, Lao PDR, Nepal, Nicaragua, Pakistan, Sri Lanka, Tanzania, Viet Nam e Zambia. [4] Il Gruppo di Lavoro delle Nazioni Unite sui Popoli Indigeni si riuniva a Ginevra ogni anno per lavorare sulla Dichiarazione. [5] Vedere http://www.un.org/esa/socdev/unpfii/ [6] Questo Piano d’Azione ha i seguenti obbiettivi: a) - Includere i popoli indigeni nel disegno, realizzazione e valutazione dei processi internazionali, regionali e nazionali che concernono leggi, politiche, risorse, programmi e progetti; b) -Promuovere la partecipazione di questi gruppi in tutte le decisioni che, direttamente o indirettamente, li concernono rispettando il principio del consenso libero, previo e informato; c) Sostenere politiche di sviluppo che si concentrano sull’identità ed il rispetto della diversità culturale e linguistica degli indigeni; d) Sviluppare dei forti meccanismi di monitoraggio [7] Vedere: http://www.un.org/esa/socdev/unpfii/en/declaration.ht |
Edizione contenuti Aprile 2012 - Riedizione grafica Luglio 2013
Copyright 2012-2013 ® Comitato Cittadino per la Cooperazione Decentrata della Città di Roma. Tutti i Diritti Riservati.
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